“…. La storia dell’HCQ (conosciuta anche con il nome Plaquenil) inizia negli anni ’30, quando i chimici svilupparono un farmaco contro la malaria (il chinino) tratto dalla corteccia dell’albero di china in Sud America e da allora utilizzato anche su pazienti con malattie autoimmuni quali lupus o artrite reumatoide. Primo punto da chiarire dunque: non è una molecola nuova. Quanto alla sua pericolosità, al contrario, è un medicinale utilizzato da circa un secolo e considerato sicuro da milioni di medici nel mondo, consci dei possibili effetti collaterali e di come prevenirli. Perciò se non è pericoloso o letale per chi lo usa per tutta la vita, come può esserlo per chi lo prende contro il Covid solo per una settimana? Tutti quelli che hanno criticato HCQ, non hanno mai risposto a questa domanda.
Quanto alla sua efficacia: i medici che hanno usato HCQ con successo contro Covid – dall’Europa all’India, dal Brasile all’America – hanno sempre dichiarato che il “come” e il “quando” viene somministrata fa un’enorme differenza sul risultato: perchè le dosi prescritte, lo stadio della malattia (all’inizio o in fase avanzata), la combinazione con altri farmaci (come l’antibiotico) sono FONDAMENTALI per far pendere l’ago della bilancia dal lato della guarigione o dell’insuccesso.
Così, proprio basandosi su queste differenze, sono stati prodotti numerosi studi in questi mesi che ne hanno dimostrato l’efficacia. Fra questi, quello del medico francese Didier Raoult insieme a studiosi provenienti da Italia, Cile, Brasile e India, che hanno analizzato e demolito in dettaglio lo studio Recovery diventato, nel frattempo, uno degli studi principali sul quale l’OMS ha basato a giugno la decisione di sospendere l’uso dell’HCQ per il COVID-19 sollecitando tutte le agenzie del farmaco a fare altrettanto.
Come si legge nella premessa dello studio di Raoult e colleghi: “Recovery è uno studio condotto nel Regno Unito in 175 ospedali dove furono arruolati circa 11.500 pazienti con sintomi respiratori più o meno gravi e polmonite interstiziale: tutti pazienti, dunque, nella cosiddetta seconda o terza fase della malattia nella quale l’HCQ è poco efficace…”, esordisce l’analisi che “proprio per agevolarne la comprensione” passa a “descrivere il COVID-19 nelle sue tre fasi di evoluzione…”
Eccone la sintesi: “Nella prima fase della malattia il virus entra nel nostro organismo e si riproduce all’interno delle cellule, senza sintomi o con i classici sintomi influenzali (malessere, febbre, tosse secca ecc): la sua prognosi è ottima e si manifesta nell’85% dei contagiati. La seconda fase è quella che colpisce i polmoni, provoca una prima risposta infiammatoria e sintomi respiratori anche importanti: la prognosi è variabile e spesso è necessario il ricovero ospedaliero. La terza fase, che colpisce pochi pazienti, è caratterizzata da una iper risposta infiammatoria (la nota tempesta di citochine) e la prognosi è severa. Ebbene l’OMS non ha mai dato protocolli da applicare per COVID-19.”
Nessuna indicazione dall’OMS, dunque, per curare Covid: né generica, né per le singole fasi. E vale la pena ribadirlo perché, come sottolineano gli autori: “Ciò nonostante… già a Marzo 2020, per affrontare ciascuna delle tre fasi, è stata utilizzata una combinazione di farmaci simile, se non addirittura coincidente, in più parti del mondo. Cioè, un approccio con farmaci ad azione immuno-modulante e antivirale…abbinando l’HCQ all’antibiotico azitromicina… Poi, all’aggravarsi dei sintomi in seconda e terza fase, si aggiungevano cortisone ed eparina a basso peso molecolare (EBPM). E a macchia di leopardo, il plasma iperimmune di persone guarite. Si è assistito così a un fenomeno forse unico nella storia della Medicina: cioè a una convergenza della pratica medica a livello mondiale, basata sulle evidenze cliniche sperimentate sul campo. Perché pur in assenza di una direttiva dell’OMS, le diverse esperienze nazionali dell’intero pianeta convergevano verso il medesimo approccio: un mix di farmaci che, sinergicamente, rispondessero nelle 3 fasi della malattia (alla replicazione virale, all’eccessiva risposta immunitaria, alla coagulazione intravascolare) ciascuno con un suo proprio ruolo specifico”.
Una convergenza non casuale. Al contrario: “Questo utilizzo clinico a livello internazionale ha fondamento nei numerosi studi dell’ultimo decennio sull’efficacia antivirale dell’HCQ contro il virus Sars, di cui il SARS-CoV-2 è parente stretto”. Perciò su “questi studi si è basata la strategia terapeutica utilizzata per esempio nell’IHU Méditerranée Infection a Marsiglia in Francia ( di cui Didier Raoult è il Direttore e dove ha strenuamente applicato e difeso questo tipo di approccio clinico ndr. ) e in tutte le realtà che si sono ispirate a tale esperienza. Inoltre gli specialisti in patologie respiratorie, conoscevano il sinergico funzionamento tra i suddetti principi attivi e quelli di specifici antibiotici con attività immuno-modulante e con anti-coagulanti, fondamentali per curare sintomi simili a quelli da SARS-CoV-2”.
Niente improvvisazioni, dunque, in Francia, in Italia, né nel resto del mondo quando già a marzo scorso HCQ diventa protagonista della cura contro il Covid grazie anche ai suoi 3 valori aggiunti: è un farmaco a basso costo commercializzato in ogni angolo del Pianeta, compresi i paesi poveri; è somministrabile facilmente a casa nella prima fase della malattia; preso nelle prime 72 ore può bloccare il Covid sul nascere sbarrando la strada alle fasi gravi dell’infezione e riducendo – fino a spegnere – i focolai della pandemia”. Perchè, allora, non è stata utilizzata a tappeto? Apparentemente per i dubbi sulla sua efficacia e pericolosità sollevati da studi come Recovery: che oggi, però, si sono rivelati inattendibili. E a demolirli hanno contribuito analisi come quella di Raoult e colleghi che ne hanno contestato “i 3 punti fondamentali: la somministrazione in fase avanzata della malattia, la monoterapia a base di sola HCQ e la posologia eccessiva…”
Quanto al primo punto criticato, cioè la somministrazione in fase avanzata: “Recovery è uno studio condotto su pazienti con sintomi respiratori più o meno gravi nella cosiddetta seconda o terza fase della malattia nella quale l’HCQ è poco efficace… come evidenziano le esperienze cliniche sul territorio mondiale”. E Raoult ne spiega anche il perché: “L’utilizzo precoce è motivato dai meccanismi di azione antivirali e immuno-modulanti dell’HCQ che vanno sfruttati nella prima fase della malattia proprio per permettere al farmaco di esplicare le sue proprietà nel momento in cui sono richieste. Ovvero, quando avviene la replicazione virale e la reazione del sistema immunitario: HCQ contrasta in modo fisiologico la risposta infiammatoria modulandola e non sopprimendola, e impedisce l’insorgere della tempesta citochinica…” Così viene demolito il primo pilastro sul quale Recovery vorrebbe dimostrare l’inefficacia dell’HCQ.
Dopodichè si passa a demolire il secondo: l’utilizzo dell’HCQ da sola, senza l’uso combinato di altri farmaci, come avvenuto, invece “nella stragrande maggioranza dei casi in cui i tassi di mortalità sono stati contenuti… Nonostante, infatti, le notevoli proprietà dell’HCQ come antivirale e antinfiammatorio, la sua efficacia viene aumentata se abbinata con l’antibiotico azitromicina usato non solo per la sua azione antibatterica… I farmaci HCQ e azitromicina sono entrambi immuno-modulatori e prevengono in modo sinergico gli effetti della massiccia infiammazione indotta da COVID-19. Quindi sono due farmaci diversi ma con attività simili che lavorano in sinergia. Inoltre l’azitromicina ferma la produzione di citochine che innesca l’infiammazione polmonare potenzialmente letale per i pazienti COVID-19… Come la monoterapia non viene praticata per altre patologie, a maggior ragione, non si giustifica in infezioni da SARS-CoV-2: patologia complessa ma che può essere affrontata in ogni fase con strumenti adeguati alla sua gravità… ma non certo in monoterapia”.
Demolito così anche il secondo pilastro, non rimane che il terzo: la dose di HCQ somministrata ai pazienti oggetto di studio. “Una posologia eccessiva che non trova giustificazione nella pratica clinica conosciuta, né in letteratura, rispetto alle dosi utilizzate abitualmente per le patologie di riferimento (malaria, lupus, artrite reumatoide). E poiché ogni farmaco è sicuro se usato a dosaggi stabiliti, ma diventa potenzialmente letale in dosi superiori… l’alta mortalità dei pazienti registrata dallo studio Recovery, sembra dipendere non dall’HCQ in quanto tale ma “dall’alto dosaggio utilizzato… 2.400 mg di idrossiclorochina nelle prime 24 ore di trattamento…. Aggiungendo alla dose iniziale, somministrazioni di 400 mg ogni 12 ore per altri 9 giorni, per un totale complessivo di 9,6 gr di farmaco in 10 giorni”. Giusto per confrontare queste dosi con quelle di HCQ usate normalmente: il gruppo del prof. Raoult in Francia ha usato fra 400 e 600 mg al giorno, per un massimo di 10 giorni, in 1.061 pazienti, riportando 8 decessi e un tasso di mortalità dello 0,75%; in Italia, per lo più 400 mg al giorno.
“Si può quindi affermare che nello Studio Recovery l’HCQ è stata utilizzata in dose non terapeutica e non comprensibile in relazione alla pratica medica… perciò, appare di dubbia validità negare a un farmaco capacità curative sulla base di un uso improprio”.
E concludono gli autori: “Lascia ancora una volta perplessi il fatto che l’OMS si basi – come fece con The Lancet – su studi che trattano il Covid come se si trattasse di una patologia completamente sconosciuta nelle sue manifestazioni ed evoluzioni cliniche. La totale assenza di un approccio medico-clinico dello Studio Recovery, deve spingere l’OMS a riconsiderare le decisioni prese in conseguenza a tale studio per non farsi carico della responsabilità di un aumento di decessi nel mondo. Sottrarre un farmaco, dimostratosi sicuro e di accertata efficacia nella fase iniziale di malattia, contribuisce ad aumentare le morti di persone che avrebbero potuto essere curate e guarite, e a prolungare la pandemia…””